abbacinàre

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Vorrei scrivere di parole desuete,

storie di parole dimenticate, abbandonate, riposte.

Parole vintage, come certe borse di velluto che trovi per caso su un banco al mercato dell’usato, e le pieghe di quella stoffa ti raccontano una storia, e boom, catapultata negli anni ’70, nella casa proletaria di un’adolescente che sogna una vita borghese, quella della figlia del padrone, che quella borsa l’ha buttata il giorno prima perché l’ha messa già due volte.

Storie di borse dimenticate, abbandonate, riposte.

Borse vintage, come certi dischi che papà aveva sepolto in soffitta, perché il giradischi non c’è più e allora con tutte le app e zapp e mp3 e lap, di un vecchio cerchio nero che te ne fai, e allora quel pezzo lo metti su you tube, e non è l’ultimo video di Madonna vestita da Jeremy Scott che fa tendenza, ma è un fondo blu con sopra certe frasi scritte che dicono si tratti del testo, ma una canzone dice molto più di quello che si canta, e allora tu osservi la copertina di quel vecchio disco, soffi via la polvere e lei ti racconta una storia, e all’improvviso è tutto un twist, un jazz, un camino acceso e due corpi che si amano stretti stretti.

Storie di dischi dimenticati, abbandonati, riposti.

Dischi vintage come certi diari, che tua madre credeva di aver nascosto accuratamente, protetti dagli occhi indiscreti di chi la vede solo come la donna che sforna i biscotti alla quale regalare un fiore a maggio, che oggi è tutto un post, un blog, un bla bla bla, e prima invece annotavi tutti gli amori che sognavi, quelli che vivevi in gran segreto, e quei baci su una vespa dietro ad un vicolo, con l’unica ingombrante presenza di un gatto invadente e spettatore. E prendi quel diario tra le mani, coperto dal tempo, un quadernino rosso, una foto ingiallita cade giù, e la storia non vuoi fartela raccontare ma solo immaginarla, perché la mamma ha fatto i biscotti e quello è il suo piccolo segreto.

Storie di diari dimenticati, abbandonati, riposti.

E torni così al tuo proposito, e vuoi scrivere la storia di una parola, vuoi colorarla con un po’ di romanticismo, aggiungerci un pizzico di malinconia, e rivestirla di fascino senza tempo, un trench inglese e l’atmosfera di Casablanca. Ma le storie di parole sono già scritte nei vocabolari, e tutti credono di sapere tutto e sul Nuovo Zingarelli leggi tronista, e la storia la conosci perché è un figlio di Maria, meno celebre dell’altro, e queste son fortune.

Abbacinàre. E lo colleghi ad abbracciare questo verbo desueto, sperduto, che vaga ramingo. Abbracciare, avvicinare, baciare, come fosse l’unica forma per descrivere l’incanto dell’atto d’amore.

Ci siamo abbacinati per tutta la notte.

Abbacinàre: accecare passando presso l’occhio un bacino o uno strumento concavo di metallo rovente; torturare; antica forma di supplizio.

E non possiamo dire che l’amore non sia cieco, che non accechi, che non sia una tortura, o una forma di supplizio nient’affatto antica ma eterna. E abbacinàre è un agglomerato di suoni dolcissimi, gli si potrebbe intitolare una pasticceria, una torta cioccolato, fragole e panna, ha diritto ad una storia diversa.

Un principe asiatico vissuto milioni di anni fa amava follemente, totalmente, infaticabilmente, una creatura divina, dai lunghi capelli ondulati e ondeggianti e molli, amava quella sua chioma fluente, il profumo che emanava, i diversi modi in cui poteva acconciarsi e risplendere. Amava a tal punto quella capigliatura da non essersi mai domandato quale volto nascondesse, fino a quando non si decise a chiedere la mano di quella dama per poter intrecciare le sue dita a quei capelli per sempre. Quando si presentò al suo cospetto, animato dalle più nobili intenzioni, emozionato come un bambino davanti al carretto dei gelati, entusiasta, gioioso, sorridente, come gli innamorati sanno essere, assolutamente folle, la vide, voltarsi piano, spostare con piccole mani, graziose e candide, la corvina capigliatura da una parte all’altra delle spalle.

La vide, voltarsi piano. In un attimo che pareva eterno, un attimo, il principe fremeva per l’agitazione e per i sentimenti contrastanti che provava davanti a quella chioma che amava come si può amare il sole in estate, desiderosi di non vederlo mai tramontare e consapevoli dell’arrivo dell’autunno.

La vide voltarsi piano, e poi non vide più nulla. Rimase abbagliato, accecato dalle fattezze della bellezza. Non ricordava altro il principe, che quel lampo negli occhi. Il potere della meraviglia. La tortura per lui fu quella, terribile, di non poter più deliziare i suoi occhi con la visione di quei capelli di seta.

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